martedì 3 agosto 2004

Interlude four

Un nuovo sussurro.

"Ehi."
"Mhmm?"
"Ancora?"

Sì. Sì, maledizione.

Interlude three

Il mio nome ripetuto ancora e ancora. Poi silenzio.
Elena attende, ascoltando il mio respiro.
"Sei ancora lì?" Dice. Sa bene che ci sono. Io cerco di riscuotermi.
"Sì," dico.
Sento i suoi scrupoli digrignanti come gli ingranaggi dell'orologio di un vecchio campanile.
"Forse non eri pronto, per questo."
Devo dirlo.
"Sono mai pronto per qualcosa?"
E' così difficile dare alla mia voce un tono naturale.

Orpheus descending

Nel buio del silenzio era più facile accettare di ripercorrere il dolore che soggiacere al nulla.
Le sue parole correvano a ritroso, goffe e impacciate, come affondando i piedi nella melma, fino a trovare il più solido terreno del rammarico e iniziare la loro corsa giù per il pendio.
Facile, così facile. Scapicollarsi verso valle senza il pensiero della risalita, mentre attorno vorticavano risa e lacrime, baci e singhiozzi. Dolore amato e ritrovato.

La forma o l'essenza? Una canzone è una canzone perchè è in musica o perchè vi sono le parole? Gli dicevano canta e lui lo faceva, sempre precipitando nell'abisso, trascinandosi tutti dietro, le parole che irrompevano nel cuore come carri armati.

E finalmente, alla base del verso, l'accecante fantasmagorica luce del silenzio annullare tutto in un bà. Ridare l'avvio al movimento. Perchè non si va più a fondo del fondo, e giunti in fondo non si può che risalire. La chiamano catarsi.

Salvo poi rovinare tutto con una sbirciatina alle spalle.

giovedì 29 luglio 2004

Interlude two

"Non vuol dire niente. Perchè non mi credi?"
La voce di Elena al telefono comincia a spazientirsi. E io comincio a credere che abbia ragione. Ma non sono ancora pronto a farlo. Non ancora.
"Lo strazio degli addii..." azzardo.
"Nel miagolìo d'un gatto?"
"E' come un pianto. Qualcosa che lui non trova il coraggio di fare. E la gatta lo fa per lui."
Un lungo sospiro, come una raffica di vento nel microfono.
"C'è ancora tanto che devi imparare."

mercoledì 28 luglio 2004

the cat & the bag

Andarsene. Andarsene.
Caldo soffocante. L'estate era arrivata, dunque.
L'aria condizionata ormai era spenta da alcuni giorni. Li contò mentalmente mentre saliva le scale e sudava. Giunto di sopra iniziò a cercare sistematicamente, aprendo armadi, chinandosi a guardare sotto i letti. Doveva trovarsi da qualche parte, lì in giro.
Nel sottoscala per poco non svenne per il calore, facendosi largo tra cappotti e coperte. Ritornò al centro del pianerottolo e, i pugni ai fianchi, si guardò intorno concentrandosi e stimolando i propri ricordi. Dove diavolo avevano messo quella dannata borsa?
S'arrampicò malvolentieri in mansarda. Il caldo lì era di gran lunga il peggiore. La camicia gli aderì alla pelle sudata, una sensazione che odiava da sempre. E sbuffando si piegò per entrare nell'antro infernale del sottotetto. Qui la visione di altri cappotti accatastati gli fece provare se possibile ancora più caldo, assieme ad una fortissima sensazione di urgenza. Doveva andarsene. Andarsene. Andarsene. Era ben lì per quel motivo.
Spostò con frenesia crescente come il suo senso di soffocamento alcuni scatoloni, alcuni sacchi. E finalmente dall'ombra uscì una grossa borsa da viaggio nera e verde.
Esitò un istante. Non era quella che stava cercando. Poi scrollò le spalle e si rituffò fuori dal forno. Man mano che scendeva le scale la temperatura divenne più sopportabile.
Andarsene. Andarsene.
La borsa in una mano, le chiavi nell'altra, uscì nel cortiletto davanti a casa. L'afa permetteva di vedere i coni di luce dei lampioni. Due, tre mandate e poteva, sì, poteva andarsene.
Il cuore gli si strinse nel petto, e lui con un respiro profondo tentò di dargli un po' di spazio. Un po' d'aria.
Aria. Andarsene.
Scese in fretta gli scalini, aprì il cancello, l'attraversò, lo chiuse alle sue spalle.
Ecco. Un passo e...
Si fermò.
Nel vaso quadrato sul contatore del gas la gatta da sdraiata si mise seduta e lo guardò.
"Ciao, micia."
Le accarezzò la testolina. Lei lo lasciò fare, i grandi occhi espressivi che passavano da lui alla borsa che reggeva e poi tornavano indietro. Si sentì come folgorare dall'idea che la gatta avesse capito che se ne stava andando. La borsa, le chiavi. La gatta miagolò. Un miagolìo struggente, disperato, che nelle sue orecchie suonò come una preghiera. "Non andartene."
Ricacciò indietro l'angoscia come potè, e questa iniziò a cercarsi altre modi per farsi strada.
Un passo, due passi. Andarsene.
Un altro miagolìo alle sue spalle. E un giro di morsa al suo cuore.
Passi, altri passi verso la notte.
Un altro miagolìo, e un altro giro di morsa.
Miao. Addio.

Interlude one

Sono al computer. Le mie dita volano sulla tastiera, le parole fioriscono sullo schermo a velocità incredibile. Non bado all’ortografia, ci penserò poi. Per ora benedico il fatto di essere un buon dattilografo, non ce la farei, altrimenti. E scrivo. Oh, Dio! Sto scrivendo davvero! Ho posato il telefono non so quanto tempo fa, e immagino, no, sento la voce di Elena dettarmi parola per parola, paragrafo per paragrafo, mandandomi a capo al bisogno. E’ dolce e calma e sicura nelle mie orecchie, ed io assorbo tutta quella benefica sicurezza, la bevo, m’inebrio, mentre pagine su pagine scorrono rapide sul mio schermo non più bianco.

A new beginning

Apro la porta ed entro nel mio microcosmo. Casa. E’ buio ma va bene così. L’oscurità nebbiosa preme contro le mie finestre; nelle giornate limpide posso vedere i tetti di quasi tutta la città, oggi non si vede oltre il davanzale. Anche questo può aiutare ad entrare nell’umore. Mi aggiro per la stanza depositando soprabito e giacca qua e là, su sedie e poltrone. Senza ancora accendere una luce mi lascio cadere sul divano e getto un’occhiata alla segreteria telefonica: tre messaggi. Pigio stancamente il pulsante “play” e la bobina si riavvolge. Il primo messaggio è di mia madre; lo lascio andare per tutta la sua durata ascoltandolo e sorridendo in silenzio alle battutine con cui infarcisce il suo monologo di cinque minuti. Il secondo è di Gabriella. Coglie l’occasione per spiegarmi per l’ennesima volta perché non ha funzionato tra di noi, e per rassicurarmi che quando ci rimetteremo insieme tutto filerà liscio, perché lei saprà già cosa fare. Le ho detto un migliaio di volte che non ci rimetteremo mai insieme, ma a quanto pare non c'è verso di farglielo capire. Il terzo messaggio è incomprensibile. Probabilmente una chiamata da un telefono pubblico: rumori di automobili e autobus e motorini che sovrastano tutto, e poche parole inudibili dopo un “pronto” più indovinato che realmente udito.
Non ho fame. Accendo d’istinto il televisore, ma lo rispengo immediatamente appena da questo cominciano ad uscire rumori di spari e frenate di automobili. Questa dovrebbe essere la serata buona. La sensazione è nell’aria, quasi tangibile. Come l’aleggiare del profumo lasciato da un’amante che sappiamo tornerà presto. E quindi, fiducioso, mi siedo alla scrivania, accendo il computer e lancio il word processor. E attendo. L’attesa è sempre stata la parte peggiore. Rimango lì con il viso tra le mani, lo schermo bianco che si specchia nei miei occhiali, il cursore che lampeggia pigro e inesorabile all’inizio della pagina vuota.
Manca qualcosa, lo so. So anche cosa e, naturalmente, saprei dove trovarlo. Ma non oso. E’ passato tanto tempo. Per un po’ rimango indeciso. Eppure, appena poche ore fa, in ufficio, quando cioè era impossibile scrivere alcunché, non una ma più ottime storie mi erano sfrecciate per il cervello come meteore. Intrecci, personaggi, dialoghi interi volatilizzati, dispersi nella densa nebbia che mi ha accompagnato a casa. Dove siete? Domando guardando la finestra e il buio oltre a quella. Dove siete? E torno a guardare il cursore lampeggiante. Ipnotizzato. Assente.
Abbandono la scrivania e mi lascio di nuovo cadere sul divano. Forse mi assopisco, forse no. Solo che ad un tratto ho in mano il telefono e faccio un numero a memoria. Sento gli squilli dall’altra parte, due, tre, poi una voce che ben conosco dice “Pronto?” e il mio cuore mi si mette a saltellare su e giù nel petto senza che io riesca a fermarlo.
“Elena?” chiedo.
“Oh, Dio!” Dice. “Sei tu!” Sento un sorriso scongelarmi la faccia intirizzita dal timore.
Sono benvenuto, sono felice.
“Si, sono io. Il tuo Dio.”
“Scemo!” Anche lei sta sorridendo. Si capisce dalla voce.
“Ora va meglio.”
“Quanto tempo...” Frase di rito, non me ne ho a male. L’avrei detta io se non mi avesse preceduto.
“Già.”
“Già. E cosa fai?”
“Mi tengo impegnato.” Non è vero. Butto via il mio tempo, è questo che dovrei dirle in realtà, e anche che è inutile che m’illuda e me ne stia ore ed ore, intere nottate, davanti al computer a guardare lo schermo bianco. Non scrivo. Non scriverò mai. Non so nemmeno se voglio aiuto o commiserazione.
“Quanto tempo...” Questa volta sono lo dico io. Mi è rimasto in mente, rimbalzando contro le pareti del cervello finché non ha di nuovo trovato l’uscita.
“Quanto tempo...” Ripete lei, la mia carissima, dolcissima eco.
Poi sento la mia voce:
“Elena?”
“Si?”
“Mi racconti una storia?”