mercoledì 28 luglio 2004

A new beginning

Apro la porta ed entro nel mio microcosmo. Casa. E’ buio ma va bene così. L’oscurità nebbiosa preme contro le mie finestre; nelle giornate limpide posso vedere i tetti di quasi tutta la città, oggi non si vede oltre il davanzale. Anche questo può aiutare ad entrare nell’umore. Mi aggiro per la stanza depositando soprabito e giacca qua e là, su sedie e poltrone. Senza ancora accendere una luce mi lascio cadere sul divano e getto un’occhiata alla segreteria telefonica: tre messaggi. Pigio stancamente il pulsante “play” e la bobina si riavvolge. Il primo messaggio è di mia madre; lo lascio andare per tutta la sua durata ascoltandolo e sorridendo in silenzio alle battutine con cui infarcisce il suo monologo di cinque minuti. Il secondo è di Gabriella. Coglie l’occasione per spiegarmi per l’ennesima volta perché non ha funzionato tra di noi, e per rassicurarmi che quando ci rimetteremo insieme tutto filerà liscio, perché lei saprà già cosa fare. Le ho detto un migliaio di volte che non ci rimetteremo mai insieme, ma a quanto pare non c'è verso di farglielo capire. Il terzo messaggio è incomprensibile. Probabilmente una chiamata da un telefono pubblico: rumori di automobili e autobus e motorini che sovrastano tutto, e poche parole inudibili dopo un “pronto” più indovinato che realmente udito.
Non ho fame. Accendo d’istinto il televisore, ma lo rispengo immediatamente appena da questo cominciano ad uscire rumori di spari e frenate di automobili. Questa dovrebbe essere la serata buona. La sensazione è nell’aria, quasi tangibile. Come l’aleggiare del profumo lasciato da un’amante che sappiamo tornerà presto. E quindi, fiducioso, mi siedo alla scrivania, accendo il computer e lancio il word processor. E attendo. L’attesa è sempre stata la parte peggiore. Rimango lì con il viso tra le mani, lo schermo bianco che si specchia nei miei occhiali, il cursore che lampeggia pigro e inesorabile all’inizio della pagina vuota.
Manca qualcosa, lo so. So anche cosa e, naturalmente, saprei dove trovarlo. Ma non oso. E’ passato tanto tempo. Per un po’ rimango indeciso. Eppure, appena poche ore fa, in ufficio, quando cioè era impossibile scrivere alcunché, non una ma più ottime storie mi erano sfrecciate per il cervello come meteore. Intrecci, personaggi, dialoghi interi volatilizzati, dispersi nella densa nebbia che mi ha accompagnato a casa. Dove siete? Domando guardando la finestra e il buio oltre a quella. Dove siete? E torno a guardare il cursore lampeggiante. Ipnotizzato. Assente.
Abbandono la scrivania e mi lascio di nuovo cadere sul divano. Forse mi assopisco, forse no. Solo che ad un tratto ho in mano il telefono e faccio un numero a memoria. Sento gli squilli dall’altra parte, due, tre, poi una voce che ben conosco dice “Pronto?” e il mio cuore mi si mette a saltellare su e giù nel petto senza che io riesca a fermarlo.
“Elena?” chiedo.
“Oh, Dio!” Dice. “Sei tu!” Sento un sorriso scongelarmi la faccia intirizzita dal timore.
Sono benvenuto, sono felice.
“Si, sono io. Il tuo Dio.”
“Scemo!” Anche lei sta sorridendo. Si capisce dalla voce.
“Ora va meglio.”
“Quanto tempo...” Frase di rito, non me ne ho a male. L’avrei detta io se non mi avesse preceduto.
“Già.”
“Già. E cosa fai?”
“Mi tengo impegnato.” Non è vero. Butto via il mio tempo, è questo che dovrei dirle in realtà, e anche che è inutile che m’illuda e me ne stia ore ed ore, intere nottate, davanti al computer a guardare lo schermo bianco. Non scrivo. Non scriverò mai. Non so nemmeno se voglio aiuto o commiserazione.
“Quanto tempo...” Questa volta sono lo dico io. Mi è rimasto in mente, rimbalzando contro le pareti del cervello finché non ha di nuovo trovato l’uscita.
“Quanto tempo...” Ripete lei, la mia carissima, dolcissima eco.
Poi sento la mia voce:
“Elena?”
“Si?”
“Mi racconti una storia?”

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